lunedì 30 maggio 2016

SCUOLA DI MOSTRI: una collaborazione Black & Dekker


Celebrando il film di Shane Black e Fred Dekker in cui ragazzi tosti e istintivi affrontano i mostri Universal. 

di JACOB KNIGHT 

In onore di The Nice Guys, abbiamo dato il via a un mese di articoli settimanali dedicati a celebrare Shane Black e ai sottogeneri visitati dal suo ultimo film.

Se c'è una stele di Rosetta riguardante l'identità cinematografica dello sceneggiatore/regista Fred Dekker, è il suo film di debutto dell'86, Dimensione Terrore. Parlando fluentemente un dialetto da nerd appassionato di film, Dimensione è una lettera d'amore con il cuore in mano al cinema di genere, mescolando insieme film di fantascienza scadenti degli anni 50, un film di zombie mutanti, e body horror Cronenberghiano - tutto mentre strizza l'occhio e rimane comunque incredibilmente sincero quando quando si parla del suo centro emotivo di studenti collegiali arrapati. Certo, l'interesse amoroso condivide il cognome con il Re Canadese della Carneficina Dismorfica, mentre ad altri è fatto dono di nomi delle più grandi icone horror come Raimi, Romero e Carpenter. Ciononostante, Dekker riesce comunque a farci sentire qualcosa per queste battute di nicchia, caratterizzandoli a tutto tondo mentre respingono lumaconi parassiti spaziali sbalzati da un intergalattica improvvisazione su Il Demone sotto la Pelle.  Questo è un vero dono: essere simultaneamente consapevoli di sé ed emotivamente onesti.

Il film di Dekker subito dopo Dimensione Terrore è il film per cui è più noto. Funziona come un esame accurato di 80 minuti della mente di un pre adolescente ossessionato con "Famous Monsters of Filmland", Scuola di Mostri del '87 è un film per ragazzi per quelli che si trovano spesso sperduti nella sezione horror del videonoleggio con la propria mamma. Simpatiche Canaglie incrociato con Abbot and Costello Meet Dr. Jekyll & Mr. Hyde, Scuola di Mostri è un ovvio tentativo di realizzare un film di mostri Universal da parte di coloro che pensavano che i Goonies non potesse grattare a fondo quel prurito alla Fangoria. È un bilanciamento quasi perfetto di humor, horror e cuore, in cui figura il bonus aggiunto di una sceneggiatura assistita da Shane Black. Quindi mentre l'incantevolmente solitaria interpretazione del mostro di Frankenstein di Tom Noonan è senza dubbio indimenticabile, è inoltre fantastico vedere il maestro dei film buddy cop prestare un po' della sua caratterstica salsa piccante nell'irriverente stufato di Dekker.

Black e Dekker sono stati buoni amici fin da quando erano compagni di classe all'UCLA. Dekker chiese a Black se voleva lavorare su Scuola di Mostri con lui, e i due buttarono giù l'idea della storia nel giro di qualche settimana mentre erano rinchiusi nell'appartamento di Dekker. Black poi uscì e scrisse la prima stesura della sceneggiatura da solo (guadagnandogli il primo credito in relazione alla sceneggiatura del film). Quello che risultò fu una sceneggiatura gigantesca, che si aggirava sulle 160 pagine. Con l'aiuto del produttore esecutivo Peter Hyams (Capricorn One), Dekker subentrò nelle revisioni, tagliando un ammontare significativo di sviluppo dei personaggi e snellendo la storia (la stesura originale di Black passava pagine su pagine sviluppando i genitori dei protagonisti cacciatori di mostri). Il risultato potrà non essere sofisticato come il cinema action per cui Black è diventato famoso, ma conservava lo sfrontato pastiche che Dekker aveva perfezionato con il suo film precedente.

Scuola di Mostri accoglie un aura di fantasia fatta a mano dai suoi fotogrammi originali, in quanto le lenti di Bradford May cattura la consistenza tangibile di questo dungeon del destino fondale dipinto. Oltre le ragnatele e i cadaveri ci sono bare, da cui il Principe delle Tenebre (Duncan Regehr) sorge e s'imbarca in una missione per distruggere il pianeta (subito dopo essersi confrontato con Van Helsing, ovviamente). Radunando un'orda di viscidi camerati del grande schermo – la Mummia, l'Uomo Lupo, la Creatura della Laguna Nera, e il Mostro – Dracula crea un sinistro "universo condiviso" in tredici minuti invece di tredici film. Stan Winston porta ogni essere alla vita con un occhio per il dettagli notevolmente marcati da museo delle cere; una meravigliosa collezione di icone manipolati e immaginati nuovamente per una nuova generazione dipendente dal gore estremo e dalla violenza della serie di Venerdì 13.  

I sobborghi invasi da questa truppa del terrore sono una nebulosa, poco focalizzata idealizzazione che sta da qualche parte tra Velluto Blu di David Lynch e il miasma melanconico da classe lavoratrice di una canzone di Springsteen. Nessuno lavora in un mulino o si fa mettere in cinta al fiume, ma i membri fondatori del “monster club” della città, Sean (André Gower), è il figlio di un poliziotto stanco morto (Stephen Macht) e una dotata casalinga sottovalutata (Mary Ellen Trainor). In queste diafane, anti realistiche descrizioni di conflittualità domestiche che sembrano gli avanzi più significativi della stesura epica di Black. Trainor porta una rassegnata tristezza al suo ruolo, mentre guarda il padre di Sean andar via da un appuntamento per lavorare su di una scena del crimine. Macht espressivamente incontra il suo meglio a metà strada, interpretando il padre come un uomo che sa di star dando la priorità alle cose sbagliate nella sua vita, ma non può farne a meno perché è dipendente dal suo lavoro. In una differente congiunzione con Shane Black, lui e il suo partner (Stan Shaw) sono un altra classica coppia da buddy cop – uno nero, uno bianco, entrambi che cercano di abbattere i cattivi. Solo che qui i cattivi hanno zanne e artigli, e gli adulti non sono pensati per credere a tali ridicoli esseri spaventosi. 

Completamente convincente è quanto cattivi sono i bambini. Tenendo il passo con la tendenza che i film di Shane Black non si inseriscono mai in uno stampino politically correct, la piccola casetta sull'albero è abitata da duri che si lanciano insulti omofobici l'un l'altro mentre danno al loro corpulento amico, Horace (Brent Chalem), il soprannome piuttosto letterale “ciccione”. Il loro protettore vestito di pelle iscritto alle superiori, Rudy (Ryan Lambert), spia e scatta foto da ricatto della bella ragazza della porta accanto quando si cambia prima di affilare paletti di legno nella classe di falegnameria. Comunque è difficile non aspettari che queste merdine siano spigolose tra di loro, mentre realizzano piani per proteggere il mondo mentre osservano ai poster per schifarsi di horror Italiani come Zombi 2 di Lucio Fulci e guardano film slasher nel drive-in dal tetto di Sean. Dekker ottiene delle performance da ogni attore adolescente che sono a cavallo della linea tra il cartonesco e il realista, in quanto la crudeltà casuale dello script suo e di Black sembra naturalistica in maniera scioccante nella sua descrizione di spavaldi fifoni ragazzini bianci emarginati.   Usando il gergo dei nostri tempi, Scuola di Mostri è fottutamente sveglio.

C'è inoltre una giustificata oscurità nel film di Dekker che si estende oltre l'invasione di bestie immaginarie. Il tipo tedesco spaventoso (Leonardo Cimino) che i ragazzi arruolano per tradurre il diario di Van Helsing e li aiuta a scacciare le forze delle tenebre si rivela essere un sopravvissuto all'Olocausto. Lui crede a questi ragazzi quando si presentano alla sua porta spacciando storie di vampiri e lupi mannari perché è già stato testimone del culmine della malvagità umana. In seguito, il padre di Sean è costretto a guardare il suo partner morire in un orribile esplosione, ululando in quanto il poliziotto è incapace di estrarre il suo migliore amico dalle fiamme. Scuola di Mostri è cattivo nella sua malizia, alludendo e ritraendo esplicitamente la sofferenza e le ferite emotive a cui molti film (fatti per giovani o teste bianche) si sottrarrebbero. 

Il finale di Scuola di Mostri prende la forma di un film di azione/avventura a rotta di collo, in quanto i ragazzi improvvisamente si ritrovano protagonisti nel loro film horror (ateriori a Danny Madigan e Last Action Hero). Il padre di Sean se le da con l'Uomo Lupo, mentre Horace raccoglie un fucile e si schiera contro la Creatura. Dekker ha spesso accreditato Hyams nelle interviste per aver promosso una mentalità da Vecchia Hollywood sul ste, e l'influenza dei Western dello studio può essere certamente sentita durante lo scontro di mezzanotte. Questo è mezzogiorno di fuoco (a mezzanotte), solo che invece che pistoleri che estraggono revolver con rigorosi sceriffi, abbiamo un gruppo di reietti che fanno sapere a queste creature della notte che loro non spazzeranno via la razza umana dall'esistenza. Tutto mente, la gamma di colori pop da fumetto di Dimensione Terrore rimane, in quanto Dekker non ha paura di prendere goffamente il largo.

Possibilmente l'elemento più affascinante di tutti è il fermo riconoscimento che i generi cambiano. I mostri dell'Universal di cui Dekker si innamorò da ragazzini non erano più popolari, e gli anni 80 avevano già visto la sensibilità del cacciare e uccidere divenire popolare e diventare demodé. Quindi resuscitò le icone di un era passata in un modo che doveva essere attraente per una generazione che avrebbe fatto parte de la Scuola di Mostri, avessero Dracula e i suoi scagnozzi invaso la loro città. Non solo il film di Dekker è un film di formazione che gira attorno a dei reietti nerd che realizzano pienamente il potente potenziale che posseggono, raddoppia come un trattato sulla natura transitiva del racconto, e come il genere cannibalizzi costantemente se stesso - rigurgitando carne e sangue per essere riformato in una nuova immagine per gli attuali consumatori. In questo modo, il film di Dekker stabilisce la sua stessa identità diventando inalienabilmente legato al decennio in cui fu concepito. Questo non è Piccole Canaglie o i Goonies, o uno degli altre facilmente comparabile collezione di mocciosi colorati. Questa è la Scuola di Mostri, e non c'è nessun lavoro troppo strano per loro da affrontare.

TRADUZIONE a CURA di DAVIDE SCHIANO DI COSCIA
ARTICOLO ORIGINALE: birthmoviesdeath.com

venerdì 27 maggio 2016

Con Holy Hell, un superstite di un culto condivide 22 anni di riprese dall'interno


di A.A. Dowd

Regista: Will Allen
Durata: 103 minuti
Rating: Not Rated
Cast: Documentario
Reperibilità: Select theaters May 27

Ventidue anni è un enorme porzione di vita da sacrificare a un falso profeta e alle sue vuote promesse di salvezza spirituale. Ma quando l'aspirante cineasta Will Allen emerse dal culto che aveva usato e abusato della sua devozione per più di due decenne, almeno aveva qualcosa da mostrare per il tempo perso: rulli su rulli di riprese, la registrazione su pellicola che aveva ammucchiato in quanto documentatore ufficiale del gruppo e ministro della propaganda non ufficiale. Holy Hell è il frutto di quel travaglio. Attraverso una combinazione della sua vasta libreria di riprese casalinghe e una serie di interviste uno a uno condotte con i suoi colleghi raggirati, Allen invita il pubblico a rivivere tutti i 22 anni trascorsi sotto l'influsso di un ciarlatano; lui ricostruisce una esposizione sotto copertura di vita all'interno di un culto. Ma è vedere questo inganno di massa in azione la stessa cosa che capirlo? Possono le immagini e i testimoni da soli fornire l'intera storia?

Ci vorrebbe certamente più di quanto scorgiamo in Holy Hell per afferrare il fascino magnetico di Michel, l'untuoso guru venuto dal niente del gruppo spirituale di Los Angeles, The Buddhafield. Descritto da uno dei suoi ex seguaci come "un attore sfaccendato che ha trovato il ruolo di una vita" - appare come uno dei groupie satanici di Rosemary Baby, abbastanza ironicamente - Michael venne in America in cerca della fama come attore cinematografico, poi si rivolse al porno prima di arrivare alla leadership New Age come una strada alternativa ai vantaggi e all'adorazione servile che bramava. Agli osservatore esterni guardare queste trasmissioni di celluloide dai primi giorni del gruppo, Michel sembra dall'inizio come il viscidone che è - uno stramboide narcisista in occhiali da sole e un costume slip che fa una cattiva imitazione di swami. Holy Hell cerca di far luce su come quella dozzinalità, quell'aura da. celebrità wannabe di L.A. , era tutto parte della sua sceneggiata da venditore ambulante, il modo in cui sembrava aggiornare i principi dell'era flower power per una moderna, California ossessionata-da-look-e-status. Stava vendendo vecchia saggezza in una nuova confezione.

Il film in pratica inizia nel 1985, quando Allen—un laureato di una scuola di cinema ostracizzato da sua madre dopo il coming out - si aggregò a più di 100 altri uomini e donne che per primi divennero consumati dai rituali del "The Teacher." Condensando, un po' troppo ordinatamente, due decenni pieni in un'ora e 40 minuti, Allen ci porta dalle idilliache radici del movimento (vivere comune e pulito; costante supporto e conferme) al suo doloroso declino, in quanto l'utopica filosofia di Michel lentamente si rivela la porta di servizio per l'auto esaltazione.  Se non altro, Holy Hell trasmette i dettagli pratici di come la "comune" del culto funzioni, mostrando ogni passo della lunga truffa di The Teacher: le sessioni di terapia da 50 dollari (o "purificazione") che rendono i seguaci dipendenti da false catarsi; la strategica attesa dell'illuminazione spirituale (o "sapere") per tenere tutti obbedienti; e l'assegnazione di nuovi nomi e il troncamento dei legami con la famiglia, per assicurare che i membri sono troppo coinvolti per abbandonare. È come Going Clear: Scientology e la prigione della fede al livello del suolo, esponendo il lavoro interno di una truffa spirituale di scala molto più piccola.

Holy Hell ha un innegabile fascino da incidente d'auto, specialmente una volta che Allen rivela semplicemente quanto profondamente questo guru particolarmente falso ha abusato della fiducia dei suoi fedeli. Nascondere delle informazioni può essere un trucchetto da due soldi nella realizzazione di un documentario, ma la tardiva, rivelazione che flette la cronologia delle colpe più oscure di Michel funziona meno come uno scossone e più come un accenno alla repressione e alla negazione che teneva The Buddhafield a galla. Quello che il film non comunica mai, quello che non può comunicare, è la spaventosa presa che The Teacher aveva sui suoi discepoli. “Come ti è successa questa cosa?” qualcuno si chiede con aria assente verso la fine del film, e guardate Holy Hell in cerca di una risposta. Ma nessuna delle prove d'archivio che Allen ha assemblando riesce a trasmettere il carisma del leader o la sua attrazione - di lasciare che il pubblico lo veda attraverso gli occhi miopi dei suoi seguaci. Il cineasta commette quel peccato cardinale cinematografico di raccontare invece di mostrare, montando attraverso spezzoni di suono dei suoi soggetti brevemente spiegando cosa li condusse lungo questa strada e cosa videro in Michael. Il film vi lascia con la voglia di saperne molto più di quanto i suoi fotogrammi disinvolti e magri 100 minuti possano fornire. 

Comunque, forse quella mancanza di connessione - quell'incapacità di diventare immerso in ciò che queste persone stessero provando, per comprendere il fascino dell'eccentrico imbroglione i cui piedi baciarono - è perfettamente a proposito. A un punto avanzato del film, uno dei discepoli confessa che agire contro Michel in uno dei glorificanti cortometraggi di Alleno lo aiutò finalmente a realizzare che l'intero movimento era una sorta di performance, una finzione.  Forse Holy Hell serve la stessa funzione per Allen: col passare al setaccio tutte le vecchie immagini della sua vita, vedendo le sue memorie spassionatamente catturate dall'occhio della telecamera, può finalmente vedere Michael per chi davvero era - e si spera nel processo, ripulirsi dall'influenza dell'uomo una volta e per tutte. Il film da la sensazione, principalmente ,come di un esorcismo, ed è struggente vedere questi sopravvissuti reclamare le loro identità davanti alla camera, di passare all'altro lato più forti.  Forse Allen ha ottenuto più di un tesoro nascosto di riprese in prima persona della sua difficile esperienza. Forse, come Holy Hell provocatoriamente suggerisce il culto ha salvato la sua vita. O sfuggirgli l'ha fatto, a ogni modo.

TRADUZIONE a CURA di DAVIDE SCHIANO DI COSCIA
ARTICOLO ORIGINALE: avclub.com

mercoledì 25 maggio 2016

Il cineasta giapponese di culto che ha ispirato Darren Aronofsky

Il lavoro del ribelle degli anime Satoshi Kon si è fatto strada tra innumerevoli altri film che hanno reinterpretato il suo stile inimitabile.


Di Alex Denney

Cinque anni fa, il Cinema ha perso uno dei suoi più sublimi talenti visivi. Satoshi Kon, appena 46 anni quando morì per cancro al pancreas nel 2010, era un vero originale i cui film sondarono i confini della realtà e delinearono con spaventosa accuratezza l'impatto di una società tecnologica sulla psiche umana. Senza il suo lavoro, Neo potrebbe non aver mai preso la pillola rossa, e l'ondata post-Matrix di film Hollywoodiani che trattavano la realtà soggettiva - Fight Club, Inception, Requiem for a Dream - potrebbero non esser mai ruzzolati fuori dalla tana del bian coniglio sui nostri schermi. Quindi perché non vediamo più tributi alla sua arte?

La scena della vasca da bagno in "Requiem for a Dream" rassomiglia esattamente la stessa scena in "Perfect Blue"
La risposta risiede in parte nel fatto che Kon - una volta apprendista del regista di Akira Katsuhiro Otomo - era un animatore i cui temi marcatamente adulti non furono apprezzati immediatamente dai pubblici occidentali condizionati a pensare all'animazione come settore orientato alle famiglie. Ma era animazione, con le sue infinite possibilità di innovazione visiva, che consentì al genio di Kon come montatore di risplendere. “(I film di Kon erano) su come le persone moderne se la cavano nel condurre molteplici vite - privata e pubblica, sullo schermo e fuori di esso, veglia e sogno,” dice Tony Zhou in Editing Space and Time, un breve documentario sullo stile di montaggio di cui faceva sfoggio Kon, che si introduceva direttamente nei suoi temi riguardo alla nostra sempre più atomizzata esistenza nell'era dei media.  “Nell'animazione, c'è solo ciò che si vuole comunicare” disse Kon, spiegando la sua preferenza per la forma sui film dal vivo. “Se io avessi la possibilità di montare film dal vivo, sarebbero troppo veloci da seguire per il pubblico.”

Nessuno dei lavori di Kon fu un gran successo al botteghino sia in patria in Giappone o all'estero, sebbene la sua relativamente snella opera - quattro film, una serie televisiva di 13 episodi - gli guadagnò un fervente seguito di culto durante la sua vita. Tra i fan del suo debutto, Perfect Blue del 1997, c'era il regista di Pi - il teorema del delirio Darren Aronofsky, che acquistò i diritti del film - un raggelante sconvolgente miscuglio meta di Hitchcock e Argento per la generazione post-internet - con un opzione per dirigere un remake dal vivo. Quel progetto non decollò mai, ma Aronofsky prese in prestito interamente la scena della vasca da bagno dal film di Kon per il suo film successivo, Requiem for a Dream (2000). 


Fu, comunque, un progetto che Aronofsky diresse quasi un decennio più tardi che ha la più stretta rassomiglianza con Perfect Blue. A seconda di quale angolo di internet vi capiti di frequentare, il Cigno Nero è o una brillante estrapolazione dei temi esplorati in Perfect Blue, o uno spudorato atto di furto. Per quelli che non l'hanno visto, Perfect Blue + la storia di un'irreprensibile cantante di un gruppo di ragazze diventata attrice la cui carriera sotto i riflettori inizia ad allentare la sua presa sulla realtà, mettendola in rotta di collisione con un doppelganger malvagio. Scambiate ‘cantante-diventata-attrice’ con ‘ballerina’, e le somiglianze con il film Aronofsky sono già evidenti. Aronofsky, che ha scritto un tributo a Kon in un nuovo libro di recente, ha negato di essere stato influenzato dal film al Philly Film Fest nel 2010: “Ci sono delle similarità tra i film, ma non ne è stato influenzato. È davvero venuto fuori dal Lago dei Cigni, volevamo drammatizzare il balletto, questo è perché è un po' altalenante, perché il balletto è grande e piccolo in un sacco di modi."


Il mettere in questione di Kon le assunzioni sottostanti ciò che chiamiamo 'realtà' in Perfect Blue prefigura anche la fantascienza altamente concettuale di Matrix.  Che i Wachowski abbiano visto il film di Kon o meno prima di sceneggiare il loro film è una questione controversa, ma certamente, i fratelli sono appassionati di manga per loro stessa ammissione, e le idee del film sul se e come costruisca il mondo attorno a noi risuonano profondamente con il punto di vista postmoderno di Perfect Blue sull'essere e sull'incertezza.. (In maniera interessante,Millennium Actress (2001) di Kon ha battuto sul tempo sia i Wachowski che Aronofsky nella sua storia d'amore attraverso le ere.) La visione di Perfect Blue di una realtà dinamica e in costante mutamento spunta in un altro tema del film: l'erosione di internet della privacy personale, un argomento a cui Kon in seguito ritornerà con Paprika (2006). Un surreale cyber Thriller riguardante il furto di una macchina che consitente all'utilizzatore di vedere i sogni delle persone, la premessa del film trova una evidente eco in Inception di Christopher Nolan (2010), un fatto che, ancora una volta, non ha eluso gli appassionati di anime dalla vista d'aquila.

Ma dove Nolan porta la sua caratteristica precisione adamantina in Inception, Paprika si lascian andare con il materiale in modi che Nolan non avrebbe mai potuto sognare (letteralmente) - i titoli di testa sono un tour de force d'immaginazione visiva, mentre la sequenza del sogno d'apertura vince comodamente in stranezza con la scena di combattimento sottosopra del corridoio di Inception.


E ancora, nonostante la sovrabbondanza di stile visivo, ci sono temi seri a lavoro qui. Niente nel lavoro di Kon è inserito a casaccio, non importa quanto stravagante. Prendete la sequenza della parata in Paprika, per esempio, i cui mostruosi convogli di samurai, bambole sinistre e frigoriferi ambulanti possono sembrare senza significato all'inesperto occhio occidentale “Quella fremente identità sembra molto ordinaria in Giappone, dove non si ha una religione assoluta come il Cristianesimo, ma molteplici dei e dee della natura ,” Kon disse al LA Times nel 2006. “(Per esempio), Io sono seduto a LA, rispondendo alle tue domande, ma nella mia mente, potrei ricordare il lavoro lasciato a Tokyo e chiedermi che cosa ci sarà oggi per pranzo. Altre persone non possono farne esperienza.”

“Non pensi che i sogni e internet siano simili?” dice la Dottoressa Atsuko Chiba, alter-ego dell'eroina eponima di Paprika, a un certo punto del film. “Sono entrambe aree dove la mente conscia repressa prende respiro.” Dato l'odierno clima di indignazione dei social media ed estremismo online, suona sinistramente preciso, specialmente per un film fatto prima di Facebook e Twitter.  Certo, parte della genialità di Kon è che, di pari passo con l'essere un brillante esteta, era un pensatore rigoroso che associava le sue immagini a un set cogente di temi. Prendete in considerazione questa citazione da un intervista rilasciata nel 2006 al Washington Post alla luce delle recenti rivelazione sul NSA e del governo che ficca il naso nelle nostre attività online: "Negli Stati Uniti così come in Giappone i dati dai computer vengono rubati molto frequentemente," diceva. “E c'è una riscrittura della nostra stessa mente, in un certo senso, perché ci vengono mostrate immagini ripetutamente e dettoci riguardo a nuovi prodotti, come qualcosa sia superiore a ciò che esisteva in precedenza. Quello imprime sulla mente certe immagini e pertanto influenzando le persone in quel modo - quello è il terrorismo a cui stavo pensando in Paprika."


Il film suscitò una standing ovation dopo la sua premiere al Festival del Cinema di Venezia, un trionfo critico all'altezza delle precedenti acclamazioni simili di Perfect Blue, Millennium Actress e del suo altro film animato, il meno apertamente lisergico Tokyo Godfathers. (La sua serie televisiva, Paranoia Agent, è descritta in modo promettente dal biografo di Kon Andrew Osmond come simile a  Twin Peaks e X-Files). Ugualmente, c'è una sensazione che Kon, un talento alla pari con artisti come Aronofsky e Nolan cosi come influenze come Terry Gilliam e David Lynch, non ha ancora ricevuto quanto gli spetta come regista.

Prima della sua morte, Kon scrisse una lunga, commovente lettera sulla progressione della sua malattia, e le sue paure che il suo ultimo film, una pellicola per bambini, non ce l'avrebbe mai fatta ad arrivare allo schermo.  Il progetto –  che potrebbe vedere la luce del giorno – era intitolato Dreaming Machine. Come titolo, sembra un giusto riassunto dei talenti dell'uomo.


TRADUZIONE a CURA di DAVIDE SCHIANO di COSCIA
ARTICOLO ORIGINALE: dazeddigital.com/

martedì 24 maggio 2016

Recensione KINDERGARTEN COP 2: Meglio di quanto ci si aspettasse, comunque non proprio buono


Non abbastanza mocciosi vengono fatti fuori.

di EVAN SAATHOFF   

In tutta serietà, un Kindergarten Cop 2 (un poliziotto alle elementari 2) interpretato da Dolph Lundgren aveva poche possibilità di innalzarsi sopra la novità semplicemente di esistere in primo luogo. Quasi volutamente, il suo valore d'intrattenimento principale risiede semplicemente nel dire a qualcuno “Hey, hai sentito che hanno fatto un Kindergarten Cop 2 interpretato da Dolph Lundgren?”

Ma c'è davvero un film che asseconda la novità, e nonostante la proliverazione di stupidi, generici tocchi da DTV che automaticamente svalutano il film, Kindergarten Cop 2 ha aree dove ha successo, in particolarmente quando si tratta di qualsiasi nozione di essere all'altezza dell'originale. Ci sono certi momenti incauti dove scimmiotta apertamente il film di Schwarzenegger, ma quando i tentativi di Dolph di calarsi in questi panni possono fare le loro cose, ci sono decisamente punti brillanti.

Dolph interpreta un agente del FBI donnaiolo (o così sentiamo) che vive in una roulotte su di un lago dove trascorre tutta le mattine a fare esercizio e tutte le notti cucinando bistecche enormi.  Lui e il suo partner, interpretato da Bill Bellamy, devono trovare una flash drive contenete documenti riservati del FBI prima che cadao nelle mani di un pericoloso spacciatore. Per ragioni che non importano davvero (nonostante il film passi venticinque tormentosi minuti a sistemarle), quella flash drive è nascosta da qualche parte in una scuola elementare.

Conoscete la procedura. Dolph deve andare sotto copertura come maestro di scuola elementare per vedere se qualcuno di questi mocciosi sa dove sia la flash drive. Inoltre inizia a innamorarsi dell'altra maestra elementare della scuola. Gli fanno pipì sopra, ecc.

Ciò che separe Kindergarten Cop 2 dal suo predecessore è la cultura di questa scuola. Mentre il film di Arnold strappava risate dal vedere un uomo forte e muscoloso incapace di controllare un mucchio di bambini, questo costruisce su quell'umorismo essendo ambientato in un ambiente educativo altamente liberale, il che significa che noi inoltre ci becchiamo un sacco di battute efficaci sulla pulizia del linguaggio, i mali di una dieta a base di glutine, e il porcellino terapia della scuola.

Il film è al suo meglio quando batte su questi tasti. C'è un bel pezzo dove a Dolph viene detto che non va bene dire a un bambino che il suo lavoro è "intelligente" e Dolph semplicemente risponde con "questo è da ritardati". C'è un'altra grande scena dove Dolph si lancia in una predica di estrema destra dopo aver letto ai bambini un libro sulle virtù della condivisione. Piuttosto che lasciare che questa roba lo faccia impazzie, il personaggio di Dolph saluta molta di questa cultura da trofeo di partecipazione con "già sicuro, non me ne importa un cazzo" liquidazione alla leggera che consente al film sia di fare le sue battute sia di essere gentile allo stesso tempo.

Ovviamente, Dolph impara ad amare i bambini alla fine, e il film perde questo po' di mordente, cadendo di nuovo in un generico giretto attraverso un plot che non avrete problemi a prevedere. In definitiva, Kindergarten Cop 2 è riempito ocn il tipo di ridicola colonna sonora provvisoria e stupidi tentativi di battute fra partner tra Dolph e Bellamy che automaticamente frenano qualsiasi tentativo di realizzare qualcosa al di sopra del livello DTV. Ma quando gioca le sue carte migliori, non è nemmeno esattamente una barzelletta di film.

TRADUZIONE a CURA di DAVIDE SCHIANO DI COSCIA
ARTICOLO ORIGINALE: birthmoviesdeath.com

domenica 22 maggio 2016

Recensioni dal Festival di Cannes: 'Dog Eat Dog'


di Todd McCarthy

Un poliziesco assolutamente disdicevole, sordido e coinvolgente. L'ultimo film di Paul Schrader vede Nicolas Cage nei panni di un ex detenuto a caccia di un ultimo grande colpo.

Non è facile inventare un nuovo modo per raccontare una moderna crime story, ma Paul Schreader è riuscito a rinfrescare un formato familiare in Dog Eat Dog, una folle, giocosa, avventurosa storia su tre perdenti assoluti che sperano che un ultimo grande colpo sarà il loro biglietto per la vita comoda.  Persino in un era definita dalla criminalità dall'umorismo nero di Tarantino e Breaking Bad, c'è un po' di comportamento scorret qui che scoraggerà molti spettatori, in special modo donne. Il film positivamente si gloria nella sua indecenza e nella sua aria a basso costo a tutto tondo; sfoggiando un salutare disprezzo per la rispettabilità, Schader si lancia e basta qui con un altamente concentrata spericolatezza che rivolta a suo vantaggio creativo. Un cast che se la gioca, condotto da Nicolas Cage e Willem Dafoe, aiuta il regista a mantenere un delicato bilanciamento tonale recitativo che abilmente miscela farsa e serietà, un approccio che attrarrà almeno agli specialisti del genere, persino se un publico più ampio probabilmente si dimostrerà sfuggente.

Basato su di un romanzo del 1995 del ben noto galeotto e scrittore Edward Bunker, autore di Vigilato Speciale, il progetto chiaramente low bidget si apre con una scena così sconcertante che alcuni spettatori rigetteranno il film dall'inizio: uno idiota strafatto, adeguatamente chiamato Mad Dog (Dafoe), perde il controllo e uccide senza motivo la sua ospitale ex fidanzata e la sua figlia adolescente.  

Quando Mad Dog poco dopo ha un incontro in uno strip club con due altri ex detenuti, Troy (Cage) e Diesel (Christopher Matthew Cook), è inizialmente difficile passare dal disgusto per il suo atto rirpovevole allo sguaiato umorismo da maschi che Schrader inizia a estrarre quando i ragazzi si staccano con le prostitute.  Ma ben presto, un sufficiente senso di credibilità del personaggio guadagna piede ugualmente con l'eccentrico, approccio tutto per tutto forgiato da Schrader e dallo sceneggiatore Matthew Wilder; questi ragazzi hanno due strike incombere su di loro, non conoscono nessun altra vita che il crimine e hanno bisogno di capire come trascorreranno il resto dei loro anni, se permanentemente dietro le sbarre o con abbastanza cuscini che non dovranno mai più lavorare.

Dopo avre realizzato un ragionevole successo realizzando un piccolo lavoro, la seconda possibilità si palesa con un eccentrico piano proposto da un mafioso locale di Cleveland conosciuto come Il Greco (Schrader, la cui voce greve rende alcuni dei suoi dialoghi difficili da decifrare):  Avranno tutti i soldi id cui hanno bisogno se rapiscono il bimbo di un gangster arrivista che sta tradendo il grande capo. Nonostante perplessità iniziali—il rapimento di bambino non fuonziona troppo bene nel caso di Lindbergh — i ragazzi decidono che diavolo, lo faranno e basta.

Ma sorpresona—le cose non vanno come pianificato, al che la vera, abberrante e intrinsecamente natura fuori legge di tutti e tre gli uomini impone se stessa come un dato di fatto, cose che semplicmente non possono essere negate, superate o abolite. Invece di scivolare in un atteggiamento cupo o, non sia mai detto, moralistico riguardo a questa accettazione della realtà, Schrader si diverte in modo molto oscuro con esso, in quanto ha i suoi personaggi rimanere fedeli ai loro tratti caratteriali da tempo stabiliti di genuina malignità e porta l'approccio alla sua naturale conclusione in ogni caso.

Lungo il percorso, quest accoglienza delle personalità profondamente difettose dei protagonisti - no, fondamentalmente negative- libera il film a diventare molto, anche se in modo peculiare, divertente.  I tre tipi continuano a fare cose stupide e orrende, incluso l'uccidere più persone innocenti, e il film non è interessato a scusarsi o a trovare scuse per essi: Cattivi è cattivo. Ma la sua definitiva onestà riguardo alla loro vere nature a liberare il film dal fare qualsiasi cosa vuole con loro, dal trovarli stupidi e terrificanti al comprenderli anche. Il film cammina su di una corda stretta e delicata e trema un po' di volte, ma mantiene il suo passo, una volta trovatolo, fino alla fine.

É un raro film in cui un personaggio interpretato da Nicolas Cage emerge come il più sano del mucchio, ma è così qui, e l'attore molto tempo fuori dalla cività in realtà qui risulta come realizzato e persino, ci crediate o meno, affascinante in un certo modo; il suo Troy potrà alla fine ritrovarsi in una situazione più grande di luima  il suo tentativo di prendere il controllo della situazione e momentaneamente sollevarsi sulla sua vera natura ispira un peculiare tipo di ammirazione.

Per contrasto, il la scheggia impazzita dal basso QI di Defoe è una creazione sia spaventosa che fresca - una scena in cui Mad Dog aredentemente enumera i difetti del suo personaggio è una gemma, una menzione definitiva nella bobina dei successi di rilievo di una vita. L'ignorante, Cook fisicamente ai limiti della decenza è assolutamente spaventoso come criminale che non si hanno dubbi sia irriformabile.

Un film raro per essere stato girato a Cleveland, Dog Eat Dog decisamente sembra girato al risparmio ma mette ciò che ci vuole sullo schermo con vigore e intelligenza.



Venue: Cannes Film Festival (Directors’ Fortnight)

Produzione: Blue Budgie Ded Productions, Mark Earl Burman Productions

Cast: Nicolas Cage, Willem Dafoe, Christopher Matthew Cook, Louisa Krause, Omar Dorsey, Melissa Bolona, Rey Gallegos, Chelcie Melton, Paul Schrader

Regista: Paul Schrader

Sceneggiatore: Matthew Wilder, basato sul libro di Edward Bunker

Produttori: Mark Earl Burman, Brian Beckmann, Gary Hamilton, David Hillary

Produttori esecutivi: Jeremy Rosen, Jeff Caperton, Barney Burman, Ray Mansfield, Shaun Redick,  Donald Rivers, Michael McClung, Tim Peternal

Direttore della fotografia: Alexander Dynan

Production designer: Grace Yun

Costume designer: Olga Mill

Montaggio: Benjamin Rodriguez Jr.

Music: We Are Dark Angels

Casting: Kim Coleman

93 minuti

TRADUZIONE a CURA di DAVIDE SCHIANO DI COSCIA
ARTICOLO ORIGINALE: hollywoodreporter.com

sabato 21 maggio 2016

Recensioni dal Festival di Cannes: ‘The Last Laugh’


di Dennis Harvey

Un squadra di comici di serie A così come parecchi sopravvissuti all'Olocausto considerano i limiti estremi dell'umorismo e "buon gusto."

“The Last Laugh” pone la domanda non musical — beh non-musical a meno che non stiate parlando di “The Producers” — “Potranno mai i Nazisti e la Soluzione Finale essere divertenti? Si dovrebbe scherzare al riguardo?” Un gruppo stellato di comici così come parecchi veri sopravvissuti all'Olocausto soppesano la domanda, fornendo una gamma di risposte che sottolinea quanto personale, e mutevole, la nozione di umorismo e offesa siano. Il misto di leggerezza, temi seri, nomi conosciuti e materiali di archivio, nel piacevole documentario ricco di spunti di Ferne Pearlstein dovrebbe trovare sopratutto compratori televisivi in numerosi mercati.

L'Olocausto è il moderno definitore dello standard per argomenti che per consenso popolare sono troppo gravi per consentirne mai la trivializzazione.  Ciò nonostante anche le risate possono essere utilizzate per formulare serie affermazioni, e le frontiere di ciò che costituisce il "buon gusto" (o almeno ciò che non costituisce imperdonabile cattivo gusto) continuano a essere spinte più in là.

Persino i sopravvissuti dei campi di concentramento hanno prospettive estremamente differenti al riguardo. Un detenuto di Auschwitz diventata insegnante, Renee Firestone emerse dalla grande sofferenza - inclusa la morte di sua sorella dopo "esperimenti medici" Nazisti - con la gioia di vivere intatta, forse persino amplificata da una così personale perdita. Lei fornisce un barometro liberale di ciò che è ammissibile nella comicità, mentre guarda un numero di comici improvvisare su YouTube e in altri posti, considerandone alcuni genuinamente divertenti e altri semplicemente di cattivo gusto.

D'altra parte, la vediamo visitare Las Vegas con un amica che non sembra poter liberamente godersi l'escursione o qualsiasi altra esperienza quasi 70 anni dopo la sua esperienza nei campi di concentramento.  Tragedia aggravata da senso di colpa del sopravvissuto l'ha lasciata a vivere in un mondo dove la comicità sembra superflua alla meglio.

Talenti comici, autori e altri dibattono questioni più ristrette: Perché di solito sia OK prendere in giro i Nazisti, ma non l'Olocausto (perché ridicolizzare gli oppressori è una cosa, le loro vittime un'altra); giusto quanto la regola del "troppo presto" scade su argomenti delicati (nessuno imbriglia la presa in giro dell'Inquisizione Spagnola, per esempio, ma le battute sull'Undici Settembre sono ancora "sbagliate"); se la soddisfazione dell'ego premio oscar di Roberto Begnini "La Vita è Bella” sia "assolutamente brillante" (come reputa la the Anti-Defamation League di Abraham Foxman) o “il peggior film mai realizzato” (Mel Brooks, un commentatore MVP qui); e il divario su attuali impiegati come Sasha Baron Cohen, i personaggi spesso fanno la parodia dell'antisemitismo e altri pregiudizi, anche se in maniere sovversive che veri bigotti potrebbero benissimo interpretare come conferma alle loro distorsioni.

L'eterna battaglia tra umorismo e censura è illustrata in un breve sguardo alle battaglie legali di Lenny Bruce, e i suoi odierni (se raramente messi in correlazione) equivalenti come Dave Chapelle, Ricky Gervais, Sarah Silverman, "South Park" e via così, ognuno dei quali frequentemente conta su l'effetto shock di materiale "inappropriato."  

Come più di un professionista dello stand up sottolinea qui, la posta in gioco aumenta con più grandi rischi; se stai per scherzare riguardo a un soggetto "taboo", sarà meglio che si tratti di una barzelletta davvero buona. Clip dal piccolo schermo della definita Joan Rivers e altri illustrano come una battuta poca ispirata che sarebbe stata diversamente dimenticabile può indurre una revulsione che fa cambiare canale quando accade di imperniarsi su Ebrei e forni.

L'assemblagio molto abile di Pearlstein riesce a sollevare tutte queste idee e altre all'attenzione dello spettatore mentre sottolinea che ci sono poche, se ce ne sono, risposte definitive a esse - essendo l'umorismo il valore più soggettivo, persino quando si arriva a un apparente assoluto morale come l'Olocausto. Comicità può essere una tattica di sopravvivenza e un mezzo di vendetta contro la tirannia, persino mentre può essere anche uno strumento di crassa insensibilità.

Brooks ha l'ultima parola quando dice "i comici sono la coscienza delle persone, e gli è consentito un largo attracco in ogni direzione ... persino se è in cattivo gusto."

Materiali di archivio qui permettono un ricco assortimento, da firmati Nazisti confiscati di atti di cabaret effettuati dai prigionieri al megalomaniaco balletto de "Il Grande Dittatore" di Chaplin e filmati dietro le quinte dell'ancora non rilasciato "The Day the Clown Cried" di Jerry Lewis. Più, ovviamente, miriadi di filmati di comici odierni (inclusi molti intervistati qui) - e "Springtime for Hitler," naturalmente.

(Anche a Tribeca.) Durata: 88 MIN.
Produzione
(Docu) A Tangerine Entertainment production. (World sales: Submarine Entertainment, NYC.) Prodotto da Ferne Pearlstein, Robert Edwards, Amy Hobby, Anne Hubbell, Jan Warner. Co-produttori, Anne Etheridge, Dori Stegman.
Crew
Diretto da Ferne Pearlstein. Sceneggiatore, Robert Edwards, Pearlstein, inspired by “The Last Laugh: Humor and the Holocaust” by Kent Kirshenbaum. Camera (color, HD), Pearlstein, Anne Etheridge; montaggio, Pearlstein; music, Joe McGinty; music supervisor, Howard Paar; sound mixers, Richard Fleming, Nico Ruderman, Hilary Stewart, John Slocum, Taj Musco; supervising sound editor/re-recording mixer, Steve Glammaria.
Con
Renee Firestone, Klara Firestone, Mel Brooks, Carl Reiner, Sarah Silverman, Robert Clary, Rob Reiner, Susie Essman, Harry Shearer, Jeffrey Ross, Alan Zweibel, Gilbert Gottfried, Judy Gold, Larry Charles, David Steinberg, Abraham Foxman, Lisa Lampanelli, David Cross, Roz Weinman, Elly Gross, Deb Filler, Etgar Keret, Shalom Auslander, Jake Ehrenreich, Hanala Sagal, Aaron Breitbart

TRADUZIONE a CURA di DAVIDE SCHIANO DI COSCIA
ARTICOLO ORIGINALE:variety.com/

venerdì 20 maggio 2016

Recensioni dal Festival di Cannes: ‘The Neon Demon’


Nicolas Winding Refn ha realizzato un horror surrealista baroccamente perverso e disgustoso ambientato nel mondo della moda di L.A.  f. Non è noioso, ma c'è meno di quanto non sembri.


La trepidazione è una cosa facile da avere a un festival cinematografico, ed è corretto affermare che lo stato d'animo di cosa-farà-adesso? che ha preceduto la premiere di Cannes in cui è stato mostrato "The Neon Demon," il nuovo film di Nicolas Winding Refn, era particolarmente fremente, e a ragione. Refn può essere un regista di stravagante umanità, come ha provato “Drive,” e anche di stravagante inumanità, come ha provato in “Only God Forgives,” la voluttuosa e ridicola fantasia di vendetta che fu aspramente detestato quando fu mostrato a Cannes nel 2013. Svitato come era, comunque, “Only God Forgives” aveva qualche momento indelebile (come Ryan Gosling con aria aflitta che si presenta per avere le sue mani mozzate),e suggerì che Refn potesse possedere la melodrammatica audacia per creare un avvincente film horror.

Un film horror è ciò che“The Neon Demon” è (una sorta). È ambientato nel mondo della moda di Los Angeles, ed è il tipo di film in cui le modelle sembrano manichini che sembrano cadaveri di un film slasher, e i cadaveri hanno l'aspetto di oggetti d'amore. La bellezza si mischia con la carne maciullata, e ogni immagine fastidiosamente viscida sembra esser uscita da "Twin Peaks: Fuoco cammina con me" o "Shining" o una versione davvero malata di una pubblicità di Calvin Klein. Ogni scena, ogni inquadratura, ogni battuta, ogni pausa è così ipnoticamente composta, così lussuosamente sovraintenzionale, che il pubblico non può fare a meno di supporre che Refn sa esattamente cosa sta facendo - che ci sta predisponendo per l'uccisione.

Lo sta facendo, ma non se siete alla ricerca di un film che abbia un senso. (Oh, quello.) “The Neon Demon” è una tentatrice. Inizia come un thriller relativamente leggibile, di facile comprensione, ma si rivela essere un film fatto da un macabro burlone surrealista e vomitevole. Jesse (Elle Fanning), un ingenua dalla pelle di pesca con i riccioli di un angelo biondo, arriva a Los Angeles subito dopo il suo 16esimo compleanno per iniziare una carriera come modella.  Le pin-up disincantate con cui deve competere sono vipere taglia gole dalla voce vellutata che hanno l'aspetto di quelle principesse di ghiaccio androide uscite dai video di Robert Palmer degli anni 80, e agiscono in modo persino più sporco di quanto lascino pensare. La ragione per cui odiano Jesse è che lei è una “It” girl, con quella speciale indefinibile qualità che l'intero mondo desidera. È chiamata innocenza, o autenticità erotica, o qualcosa che non può essere raggiunto da una mera combinazione di genetica olimpica, chirurgia plastica, e protesi al seno. 

Jesse, come capo della sua agenzia di modelle (Christina Hendricks) la informa che, ha la formazione della star. Ma tutto ciò che il suo splendore mangia pannocchie sembra attrarre sono presagi di violenza.  Refn, se non altro, è piuttosto bravo nei presagi. Di fatti, è più bravo nei presagi di quanto non lo sia a far seguito a ciò che essi presagiscono. Per un ora “The Neon Demon” è tutto incontri gelidi mesmerici che sembrano rimanere nell'aria, con un suggerimento di violenza perversa che è sempre in agguato dietro l'angolo.

Jesse ha affittato una stanza in uno squallido motel di due piani a Pasadena, e una notte apre la porta, e c'è una qualche sorta di intruso dentro.  (Come scopriamo, sembra essere scappato dallo zoo.) Persino peggio è il manager del motel, un vero cane invadente interpretato, in un altamente convincente cambio di ritmo, da Keanu Reeves. Allo studio di modeling, Jesse riesce a ottenere una sessione con uno di fotografi top della lista dell'agenzia, che le chiede di spogliarsi, poi la ricopre di vernice dorata - niente di ciò sarebbe granché disturbante se lui non trasmettesse la vibrazione di un serial killer che sta tracciando la sua vittima. Poi ci sono le altre modelle. Gigi, lo squalo bianco, è intepretato da Bella Heathcoate, che ricorda una più roboticamente perfetta Heather Graham, e Sarah, l'imbronciata Eurospazzatura, è interpretata da Abbey Lee, che sembra elevare la noia in qualcosa di omicida.

Refn tratta questi personaggi non come persone ma come oggetti pop, e ciò che costruisce al loro non è tanto un film di suspanse quanto una piece da sogno in cui vale tutto. Riscucchia influenze come un aspirapolvere estetico  - non solo Lynch e Kubrick (le sue due più ovvie divinità di riferimento) ma Dario Argento, il David Cronenberg di "Crash," e persino "Persona" di Ingmar Bergman. C'è una sequenza ambientata in un nightclub che include un triangolo al neon composto di tre triangoli più piccoli, e un immagine duplicata di tre Jesse (una delle quali bacia se stessa), e potrebbe ispirare due pensieri allo stesso tempo: "Wow, quello è proprio fico!" e "Ma che cazzo sta succedendo?"

In caso abbiate qualche dubbio su se “The Neon Demon” sia un film dal realizzatore di “Drive” o dal realizzatore di “Only God Forgives,” siamo chiari: è un film dal realizzatore di “Only God Forgives.”Probabilmente farà meglio al botteghino, comunque, in quanto i film horror, nell'era multisala del torture-porn-incontra il-J-horror-incontra-il-tinello, non devono avere per forza senso per aver successo. Ma se “The Neon Demon” avesse stretto la nostra immaginazione con più grande forza, avrebbe potuto essere un fenomeno invece che solo una curiosità Grand Guignolesca.

Dopo un po, la personalità da bimba innocente di Jesse inizia a cambiare un po. Sviluppa un senso del suo potere nel mondo della moda, flettendo i suoi tacchi a spillo con le punte d'acciacio, e inizia a diventare come una Eve Harrington la cui innocenza era solo una farsa. Ma Refn è così devoto a restare un passo avanti al suo pubblico, togliendo il terreno da sotto i nostri piedi - e il pavimento - che non può attenersi a nulla.  C'è una scena molto buona - nel suo modo malato, la più efficace del film - in cui il manager del motel di Reeves estrae un coltello e ci fa qualcosa di squisitamente orrendo. Se Refn avesse semplicemente lavorato con quel tipo di horro, avrebbe potuto fare un thriller atrocemente efficace. Ma sembra considerare la coerenza di tono come una svendita. Mette in scena una scena di seduzione lesbica piuttosto rozza, che spunta fuori dal nulla ma finisce per suggellare il fato di Jesse. C'è inoltre un gran finale che evoca ciò che è fatto per essere la catarsi del disgusto: coinvolge quella emozione preferita dal thriller, il senso di colpa, così come modelle legate in ciò che sembrano bretelle di arti fratturati, più - si - un globo oculare spia. Ah, l'orrore! Non l'orrore evocato dal film, ma lo scalcagnato orrore di e-adesso-che-cosa-farà dello storytelling di Nicolas Winding Refn. .

Durata: 117 MIN.
Produzione
A Jokers Films release of a Space Rocket Nation, Wild Bunch, Gaumont production. Prodotto da Lene Børglum, Sidonie Dumas, Vincent Maraval, and Nicolas Winding Refn. Produttori esecutivi, Michael Bassick, Brahim Cioua, Rachel Dik, Victor Ho, Steven Marshall, Cristophe Riandee, Thor Sigurjonsson, Jeffrey Stott, Gary Michael Walters, Christopher Woodrow. Co-produttori, K. Blaine Johnston, Elexa Ruth.
Crew
Diretto da Nicolas Winding Refn. Scritto da Refn, Mary Laws, Polly Stenham. Camera, Natasha Braier; montaggio, Matthe Newman;  Jake Roberts; production designer, Elliott Hostetter; costume designer, Erin Benach; music, Cliff Martinez; special effects, Wayne Burnes; casting, Nicole Daniels, Courtney Sheinin.
Con
Elle Fanning, Christina Hendricks, Keanu Reeves, Jena Malone, Abbey Lee, Bella Heathcoate, Desmond Harrington, Karl Glusman.

TRADUZIONE a CURA di DAVIDE SCHIANO DI COSCIA
ARTICOLO ORIGINALE: variety.com

giovedì 19 maggio 2016

Recensioni dal Festival di Cannes: ‘Pericle il nero’


di Jay Weissberg

Un Sicario napoletano della mafia in Belgio commette un grande sbaglio e scappa in Francia in questo dramma del sottobosco criminale bilanciando realismo con pessimismo noir.

Un Napoletano trapiantato in Belgio che lavora come sicario per la mafia erroneamente uccide la sorella di un boss di un clan rivale e scappa in Francia in "Pericle il nero," un solido studio sul personaggio che soffre per un'eccessiva dipendenza dalla voce fuori campo in prima persona. I fratelli Dardenne sono i padrini del regista Stefano Mordini in molteplici modi: stilisticamente il film abbraccia il neo-realismo Belga, è parzialmente ambientato in Liège, e i Dardenne sono co-produttori. Mordini è stato per lungo tempo attratto dai distretti proletari (“Acciaio,” “Provincia meccanica”) quindi quello non è una novità, ma "Pericle il nero" è un lavoro molto più maturo rispetto ai suoi film precedenti, nonostante il gap di personalità tra il protagonista come visto sullo schermo opposto a ciò che si sente nella narrazione è fastidiosamente ampio. Il weekend di apertura in Italia ha raggiunto un rispettabile 110,000 dollari, mentre le prenotazioni oltre i territori familiari verranno per la maggior parte da esposizioni Italiane.

Pericle (Riccardo Scamarcio) si muove attraverso la vita in stordimento, recitando frettolosamente in film porno da quattro soldi ma principalmente agendo come cattivo per Don Luigi (Giorgio Morra), capo di una delle due famiglie criminali italiane in Belgio. All'esterno è privo di vita, persino quando pesta i nemici del Don sulla zucca con una busta di plastica piena di chiodi, ma nella sua testa è considerevolmente più verboso ed emotivo, oppresso da suo status di orfano e sentendosi disconnesso dal mondo.

Quando per errore uccide la sorella (Maria Luisa Santella) del rivale di Luigi, Pericle si da alla macchia, prima in una casa sicura (queste scene sono particolarmente oscure e ben realizzate) e poi sulla costa francese, dove cerca di rimorchiare Anastasia (Marina Foïs) in un caffé. Lei è insensibile all'inizio, ma la perseveranza paga e in men che non si dica lei lo riporta al suo appartamento per una bella scopata, persino dopo aver saputo che non ha un indirizzo al momento.

È probabile che molti spettatori non si berranno la fiducia immediata di Anastasia in un uomo che dorme nella sua macchina, specialmente considerando che ha due bambini - non è strano che dopo un incontro intimo lasci i suoi ragazzi alle sue cure?  Concesso che accenda il fascino quando è con lei - un fascino che non visto in altre circostanze - ma comunque la quasi istantanea fiducia rimane un elemento seccante in un film che altrimenti cerca duramente di bilanciare realismo con pessimismo noir.   L'idillio ovviamente non dura: c'è un oscutirtà nella personalità di Pericle, e quando realizza che Don Luigi l'ha venduto, è lasciato ancora una volta ad affrontare una vita di problemi che ruotano attorno all'abbandono familiare.

In classico stile noir, Anastasia rappresenta la luce e la bontà con il suo appartamento sulla spiaggia e due figli adorabili, dove Pericle, più a suo agio durante la notte, viene da un posto più oscuro. La sua voce narrante rivela una torturata, personalità vagamente consapevole di se stessa non intravista nella sua forma esterna, che tende a essere imbronciata e quasi monosillabica eccetto che con Anastasia. Certo non a causa di Scarmacio, che ha la pensosa intensità richiesta per il ruolo, il film fallisce nel rendere questi due lati del personaggio credibili come una sola persona, pertanto intralciando un senso di connessione con questo antieroe.

Meglio reso è il senso di questo mondo sotterraneo Napoletano incongruamente residente in un ambiente decisamente non suo.  La camera funziona come uno spettatore rapito, occhieggiando il mondo con un ammonitore senso di sfiducia, come se stesse appiccicata alla nuca dei personaggi assicurasse che non scappino. Riprese dei depressi paesaggi industriali del Belgio accentuano la connessione alla visione dei Dardenne mentre si ricollegano anche all'interesse di Mordini per il proletariato. Le canzoni sono usate acutamente per rinforzare l'atmosfera, dalla forza trainante di "Get Into It" dei The Strypes al lamentoso "Wild is the Wind" di Nina Simone.

Durata: 104 MIN. 
Produzione
(Italy-Belgium-France) A BiM Distribution release (in Italy) of a Buena Onda, Les Fils du Fleuve, Les Production du Trésor production, with Rai Cinema, with the participation of Tax Shelter du Gouvernement Fédéral de Belgique, Casa Kafka Pictures, Belfius, VOO et Be TV. (International sales : Rai Com, Rome.) Prodotto da Viola Prestieri, Valeria Golino, Riccardo Scamarcio. Co-produttori, Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne, Alain Attal. Produttori esecutivi, Delphine Tomson, Marie Le Mire, Xavier Amblard.
Crew
Diretto da Stefano Mordini. Sceneggiatura, Francesca Marciano, Valia Santella, Mordini, loosely based on the novel “Pericle il Nero” by Giuseppe Ferrandino. Camera (color), Matteo Cocco; montaggio, Jacopo Quadri; music, Peter von Poehl; production designer, Igor Gabriel; costume designer, Antonella Cannarozzi; sound, Jean-Pierre Duret; sound edit, Stefano Grosso, Daniela Bassani, Marzia Cordo’; associate producer, Philippe Logie; casting, Francesco Vedovati.
Con
Riccardo Scamarcio, Marina Foïs, Valentina Acca, Gigio Morra, Maria Luisa Santella, Lucia Ragni, Seloua M’Hamdi, Samuel Laurie. (Italian, French dialogue)

TRADUZIONE a CURA di DAVIDE SCHIANO DI COSCIA
ARTICOLO ORIGINALE:variety.com/

mercoledì 18 maggio 2016

Recensioni dal Festival di Cannes:'The Red Turtle' ('La Tortue Rouge')


di  Jordan Mintzer

Una semplicistica anche se meravigliosamente resa storia di abbandono su di un isola.  L'animatore premio Oscar Michael Dudok de Wit ha mostrato in anteprima il suo primo lungometraggio a Cannes.

Una favola minimalista dove uomo e natura legano assieme in modi altamente misteriosi, The Red Turtle (La Tortue Rouge) segna il debutto al lungometraggio dell'illustratore e animatore Olandese-Britannico Michael Dudok de Wit, il cui corto Father and Daughter vinse il premio Oscar nel 2000.

Co-prodotto dallo Studio Ghibli, con l'influenza dei suoi fondatori Hayao Miyazaki e Isao Takahata molto evidente nello squisito utilizzo del tratto e del colore nel film, per non menzionare il suo mutevole racconto di famiglia, sopravvivenza e paradiso ritrovato, questo ridotto Robinson Crusoe - raccontata interamente senza dialoghi - ha avuto la sua anteprima nella sezione collaterale di Cannes Un Certain Regard, nonostante sia una narrazione piuttosto semplice potrebbe in ultima analisi dare il meglio di se con il pubblico dei bambini dagli 8 in giù. 

Quasi un decennio di costruzione, il poema sinfonico tropicale di Dudok de Wit - co sceneggiato con il regista francese Pascale Ferran (Bird People) - usa il potere puro delle sue creazioni grafice, per non far cenno dell'eccellente design sonoro a cura della post house parigina Piste Rouge, per raccontare la storia di un uomo senza nome che naufraga su di una piccola isola e si ritrova a combattere gli elementi naturali mentre cerca di sopravvivere.

Come Tom Hanks in Castaway, ma senza il pallone parlante, l'uomo cerca di costruire una zattera che lo porterà in mare aperto. Eccetto che ogni volta, una creatura sottomarina nascosta continua a ostacolare la sua fuga. Presto scopriremo che l'assalitore è la tartaruga rossa del titolo, e, nel momento in cui il nostro eroe riesce ad attaccarla, lasciando la tartaruga gigante a morire sulla spiaggia, improvvisamente si trasforma... in una stupenda rossa.

Qusta è decisamente la sorpresa più grande nella altrimenti semplice storia di Dudok de Wit, che va avanti immaginando la vita armoniosa dell'uomo e della donna mentre decidono di vivere assieme come la coppia di Laguna Blu - o altrimenti come Adamo ed Eva nel giardino dell'Eden - alla fine crescendo un bambino tutto loro.

La maggior parte dell'ultima metà del film ritrae una placida esistenza isolana afflitta solo da pochi ostacoli - incluso uno tsunami reso in modo dolorosamente realistico - mentre il tempo va avanti e mamma e papà sperimentano ciò che molti genitori nel mondo sperimentano, eccetto che in un modesto modo silenzioso che si affida a tropi emotivi universali. -

Mentre il plot a volte può sembrare troppo leggero per un film, con una colonna sonora del compositore Laurent Perez del Mar (Now or Never) che tende a strafare dal lato della leziosità, The Red Turtle trae beneficio del bellissimo lavoro di animazione di Dudok de Wit e della sua squadra, che include Takahata (La storia della principessa splendente) come produttore creativo e Jean-Christophe Lie (Appuntamento a Belleville) come supervisore dell'animazione.

Il regista olandese è sempre stato ispirato dalle classiche stampe e acquerelli dalla Cina e dal Giappone - il suo corto nominato all'Oscar nel 1994, The Monk and the Fish, è un perfetto esempio - e qui riesce a portare quei disegni alla vita, in una favola che prende le sembianze dell'estetica calma e organica di una fantasticheria marina.

Se la mancanza di una storia intensa in stile Hollywoodiano potrà frustrare alcuni spettatori, eccezion fatta forse per i più giovani, allora probabilmente non l'avranno capito. Come il protagonista naufragato di The Red Turtle, dovete semplicemente smettere di combattere la corrente e seguire il flusso.

Compagnie di Produzione: Wild Bunch, Studio Ghibli, Why Not Productions, CN4 Productions, Arte France Cinema, Belvision
Regista: Michael Dudok de Wit
Sceneggiatori: Pascale Ferran, Michael Dudok de Wit
Montaggio: Celine Kelepikis
Compositore: Laurent Perez del Mar
Creazione Grafica: Michael Dudok de Wit,
Animazione: Jean-Christophe Lie
Produttore Creativo : Isao Takahata
Venue: Cannes Film Festival (Un Certain Regard)
Distribuzione: Wild Bunch

80 minutes

TRADUZIONE a CURA di DAVIDE SCHIANO DI COSCIA
ARTICOLO ORIGINALE:hollywoodreporter.com

martedì 17 maggio 2016

Recensioni dal Festival di Cannes:'Hands of Stone'


di Leslie Felperin

Toro invecchiato mostra al ragazzo nuovo come si fa. Robert De Niro interpreta Ray Arcel, l'allenatore che allenò il peso medio Roberto Duran (Edgar Ramirez) verso la grandezza negli anni 70.

Se ci fosse un'arena virtuale dove i film di boxe potessero scontrarsi e Hands of Stone e Creed potessero combattersi come pesi medi di livello medio, Creed probabilmente vincerebbe ai punti - ma non per un grande margine. I contendenti sono strettamente allineati. Entrambi sono di registi emergenti, nonostante il Ryan Coogler di Creed abbia più raffinatezza rispetto al Jonathan Jakubowicz di Hands of Stone. Entrambi i film sono più sdolcinati di quanto non pensino, ma comunque dicono cose ponderate su razza, classe e su come lo sport si sia evoluto durante gli anni.

Principalmente vertono entrambi sul vecchio-incontra-il nuovo, sia a livello letterale che meta. Lo scorso anno Creed vedeva Sylvester Stallone riprendere il suo ruolo di Rocky Balboa, un ex campione che diventa allenatore per un giovane combattente (Michael B. Jordan). Hands of Stone, nonostantein apparenza sia un biopic sul leggendario pugile degli anni 70 Roberto Duran (Carlos' Edgar Ramirez), non è i nrealtà un sequel di alcunché. E nonostante ciò i cineasti sono chiaramente ben consapevoli che un componente principale della sua attrattiva risiede nella scrittura di Robert De Niro, star del canonico film di combattimento Toro Scatenato, come coach di Duran Ray Arcel, un fortemente onorevole, paterno vecchietto in uno sport talvolta ignobile, in pratica l'opposto del Jake LaMotta di Toro Scatenato.

Dato che la The Weinstein Company sta distribuendo la pellicola, iniziando il suo viaggio a Cannes fuori competizione - dove la premiere è stata trasformata in un tributo a De Niro - c'è una buona possibilità che lo spingano come contendente agli oscar più in la durante l'anno. La cosa triste in una tale strategia, come con Creed, è che distrarra l'attenzione da Ramirez, che da l'interpretazione più interessante. De Niro mostra quale maestro sia prendendosi il suo tempo con una combustione lenta, ma essenzialmente è un interpretazione che potrebbe fare dormendo, costruita attorno alla stranezza di vederlo con una parrucca in lattice per farlo sembrare calvo. Ramirez, d'altra parte, afferra l'occasione di mostrare la sua portata con il suo arrabbiato ma scalto, elegante ma incontrollabile Duran. Il suo lavoro nelle scene di lotta confeziona una convincente lotta, e mentre nessun regista da Toro Scatenato è mai stato in grado di resistere a usare la slow-motion per mostrare come i colpi si inarcano e vanno a segno, il nativo del Venezuela Jakubowicz (Secuestro Express) saggiamente non cerca l'omaggio totale a Martin Scorsese. Riprende i combattimenti principlamente in non particolarmente pretenziose riprese aeree (con la gru) e primi piani, trascorrento più tempo da vicino a Duran e Arcel durante il loro discorsi di incoraggiamento all'angolo, che finiscono sempre in modo toccante con Arcel che pettina i capelli di Duran prima che ritorni sul ring, come se sia un figlio in procinto di cantare al suo bar mitzvah.

Jakubowicz mostra più inventiva e dedizione con le parti non di combattimento del film, specialmente le scene ambientate e girate a Panama, dove il sentimento anti-americano tra i locali è molto sentito. Duran potrà essere scarsamente istruito, incapace persino di leggere dopo un infanzia trascorsa principalmente nelle strade rubando per sopravvivere, ma afferra la situazione post-coloniale e come la sua fulminea ascesa sotto la tutela di Arcel lo trasformi in un simbolo nazionalista. Mentre il film si fa strada attraverso gli incontri chiave che hanno assicurato a Duran i suoi titoli, prima contro Ken Buchanan nel 1972 e poi in seguito il suo nemico/amico Sugar Ray Leonard (la pop star-diventata-attore Usher, accreditato qui come Usher Raymond IV), la sceneggiature di Jakubowicz è attenta a fornire spegazioni sugli sforzi di Panama per riacquisire il controllo del canale. C'è abbastanza ronzio di fondo sul regime di Omar Torrijo e clip di archivio di presidenti americani (prima Carter, poi Reagan) discutendo trattati per creare una rassicurante sensazione che questa storia ha luogo in un mondo reale,anche se è ovvio che larghe porzioni di storia sono state ignorate.

Certo, a volte sembra come se altre porzioni siano state lasciate da qualche parte nel cestino dei rifiuti digitali della sala di montaggio perché ci sono ovvi buchi e bablbettii nella narrazione, personaggi di cui ci è stato detto sono terribilmente importanti solo per vederli sparire dalla narrazione del tutto fino a che è ora per la loro dipartita di avere effetto su Duran. Almeno abbastanza tempo è attribuito all'esuberante interesse amoroso di Ana De Armas, la moglie di Duran Felicidad, per costruire trepidazione attorno a ciò che riuscirà a fare in un ruolo importante nell'imminente remake di Blade Runner.

La fluidità non è il pezzo forte del film. Ma lo sono le situazioni, e ci sono abbastanza scene che colpiscono allo stomaco grazie a Miguel Ioan Littin Menz - per esempio, una ripresa aerea di una processione religiosa e viste impennate del canale che non servono a niente se non al bene dell'industria del turismo di Panama. In conclusione, Hands of Stone è ben lontano dalla perfezione, ma colpisce abbastanza sopra la sua categoria per evitare dall'essere facilmente archiviato. 

Venue: Cannes Film Festival (out of competition)
Distributor: The Weinstein Company
Production companies: Fuego Films, Vertical Media, Epicentral Studios, Panama Film Commission
Cast: Robert De Niro, Edgar Ramirez, Usher Raymond IV, Ana De Armas
Director-screenwriter: Jonathan Jakubowicz
Producers: Carlos Garcia de Paredes, Claudine Jakubowicz, Jonathan Jakubowicz, Jay Weisleder
Executive producers: Ricardo Del Rio, Robin Duran, George Edde, David Glasser, Bill Johnson, Max A. Keller, Jim Seibel, Benjamin Silverman, Bob Weinstein, Harvey Weinstein, Sammy Weisleder
Director of photography: Miguel Ioann Littin Menz
Production designer: Tomas Voth
Costume designer: Bina Daigeler
Editor: Ethan Maniquis
Music: Angelo Milli
Visual effects supervisor: Rodrigo Tomasso
Casting: Dilva Barriga, Amanda Mackey, Cathy Sandrich
Sales: Creative Artists Agency, The Weinstein Company

Not rated, 106 minutes

TRADUZIONE a CURA di DAVIDE SCHIANO DI COSCIA
ARTICOLO ORIGINALE:hollywoodreporter.com/

lunedì 16 maggio 2016

Recensioni dal Festival di Cannes: ‘The Nice Guys’


di Owen Gleiberman

Russell Crowe e Ryan Gosling fanno centro nell'ultima arma letale di Shane Black, una commedia anni 70 di aggressione di prim'ordine 

In “The Nice Guys,” una straordinariamente disdicevole mistery-comedy aperta a tutti diretta strizzando l'occhio all'entusiasmo volgare di Shane Black, Russel Crowe interpreta un delinquente freelance in affitto - il tipo di tizio che impedirebbe alla vostra figlia adolescente dall'uscite con uno squallido drogatello facendo visita alla casa del drogatello e colpendolo in faccia con un tirapugni.  (È sorprendente quanto questa cosa sia efficace.) Il film accoppia Crowe con un teneramente farfugliante investigatore privato, interpretato da Ryan Gosling, che è tanto convinto e inetto quanto il suo nuovo partner è bruscamente violento. È il 1977, e questi due si aggirano per Los Angeles su di uno sfondo di boogie-nights di poliestere colloso, spaccando teste, imbucandosi alle feste, scappando a sicari, e ficcandosi fin nel lurido fondo di una cospirazione che in qualche modo combina il sottobosco dei film per adulti con un piano dei tre grandi produttori di auto per sopprimere la marmitta catalitica. (Si, è un film messaggio di PC incarnato .) “The Nice Guys” è uno sberleffo ultra violento, il tipo di festicciola buddy allegramente ostile che è stata uno punto fermo sin dagli anni 80, solo che questo qui è singolarmente arguto riguardo la sua stessa trivialità, e offre il piacere trasandato di vedere due grandi attori moderare la loro solennità con stile. Il film probabilmente avrà un gran successo con il pubblico, e per la stessa ragione che si è dimostrato essere un perfetto pulisci palato a Cannes.  È una delizia vedere un popcorn movie così decadente fatto da persone che sanno esattamente ciò che stanno facendo. 

La moderna buddy comedy in origine scaturì da “Butch Cassidy,” ma lo sceneggiatore che l'ha pompata al suo voltaggio esagerato attuale è Shane Black, quando scrisse "Arma Letale" nel 1987. Il modo in cui quel film mischiò assieme azione esplosiva, commedia con insulti pungenti razzisti, e una generale atmosfera di pazzia ma-che-diavolo lo rese uno dei più influenti fil usa e getta degli anni 80, sebbene parte del suo fascino sia che Black, con il suo dono per i discorsi spietati affilatissimi, sembrava gloriarsi della nozione che non stesse mirando molto in alto.  Dopo aver scritto il primo seguito di "Arma letale", si reinventò scrivendo e dirigendo "Kiss Kiss Bang Bang" (2005), uno stravagante thriller noir che era un piccolo tesoro nelle sue battute sagaci piene di verve - ma si vedeva che Black stava cercando di fare qualcosa Poi, dopo una pausa di quasi 10 anni, diresse "Iron Man 3" e divenne un superbo cineasta pop, approfondendo la saga di Tony Stark con una combinazione di spettacolo e timore che si rivelo essere uno dei più elastici film Marvel mai fatti. “The Nice Guys” è come un film di "Arma Letale" realizzato dal più spiritoso e più abile Shane Black di "Iron Man 3." Il film non smette di sorprendere, quindi non si ha mai la sensazione di guardare un film dalla formula pugni-incontrano-un buffone - incontrano- corruzione (persino quando lo si sta facendo).

A un certo punto, potreste rimanere a bocca aperta di fronte a uno degli attori principali di Hollywood e pensare che sembri un po cicciottello, un po gonfio, un po strapazzato. Poi c'è il punto in cui quell'attore ha portato la sua aura d'esser strapazzato così a lungo che inizia a lasciare che lo difinisca; inizia a usarla lui stesso.  Qui è dove si trova Russell Crowe in “The Nice Guys.” Il suo Jackson Healy, strizzato e paffuto in una sporca giacca di pelle blu chiaro, con i capelli tirati indietro in un taglio alla james dean, è come una sorta di scagnozzo di uno strozzino, escluso il fatto che non lavora per la Mafia. Lavora per chiunque possa raggranellare pochi miseri verdoni. Quel che è divertente nel guardarlo è che tratta la crudeltà del suo lavoro tanto casualmente come se stesse riempiendo un modulo per le tasse. Crowe, sfruttando abilmente l'ironia del titolo del film, rende Jakson un cortese bullo, un tipo che picchierebbe a sangue chiunque - ma solo come mezzo per un fine. (Il fatto che possa godrene è un sotto testo profondamente seppellito.) All'inizio, gli viene assegnato di fare visita a Holland March (Gosling) per fargli mollare un caso. Spezza il suo polso in due — il che, in questo film, è l'equivalente di una stretta di mano. Sicuro abbastanza, i due presto lavorano assieme, incaricati di rintracciare Amelia (Margaret Qualley), una brunetta a piedi nudi in un vestito giallo che continua a spuntare come un apparizione. Ha interpretato il film “sperimentale” – che è, nudo — del suo ragazzo, e poi la sua casa viene bruciata, e un crudele sicario di nome John Boy (Matt Bomer, con un ciuffo da brividi) vuole disperatamente mettere le mani sul film. Ma perché?

All'inizio, Holland fissa il suo partner con un barlume di terrore farsesco. Gosling, tra i suoi molti talenti, è sbocciato in un ispirato comico fisico, ed è uno spasso guardarlo conversare con Crowe da un bagno mentre prova funambolicamente di tenere aperta la porta, puntare una pistola e tenere un magazine sul suo pacco allo stesso tempo. Ma Holland è più divertente quando fa bella mostra della sua incapacità autodidatta. È naturalmente sbronzo, di solito ubriaco, e miopicamente sincero, e quando affronta un incauto poliziotto che dice che stava obbedendo agli ordini proclamando onestamente, "Sa chi altro stava solo seguendo gli ordini?  Hitler!” Gosling investe quella battuta con così tanta convinzione che non possiamo far a meno di notare che Holland l'ha detta mezza giusta, e questo è quasi toccante nella sua ilarità.

Per un film ambientato nei tardi anni 70, “The Nice Guys” ha una notevole quantità di atmosfera luccicante, fradicia di smog - la fotografia di Philippe Rousselot da a L.A. un bagliore da notte sbocciata — ma non, alla fine, molta autenticità del periodo. Earth, Wind & Fire, interpretati da attori, suonano a un parti tenuto da un produttore porto, ma perché, solo minuti prima, ascoltiamo "Boogie Wonderland" dei EWF nella colonna sonora - una canzone che non uscirà se non fino a due anni più tardi?  Holland veste in turbinanti camice psichedeliche, è ci sono riferimenti alla novità del divorzio consensuale, ma questi sono pegni che rappresentano con non si sommano mai alla frivola stonata sordidezza degli anni 70.

Ancora, quel che è divertente riguardo “The Nice Guys” è che la sua casuale ostilità senza rimorso, è riflessa in tutto dalle spiritosaggini mozzafiato alla crudeltà slapstick della sua violenza, esprime nient altro così intensamente che lo spirito dell'oggi. C'è un grande momento quando i nostri eroi hanno preso l'ascensore di un hotel per prendere d'agguato un cattivo, e quando le porte dell'ascensore si aprono vediamo un corpo artigliare le pareti del corridoio, poi un altro venire sparato, e i nostri eroi si chinano di nuovo nell'ascensore, con una scrollata di spalle "non abbiamo bisogno di questa roba". I tempi comici delle gag sono squisiti, perché è il modo di Black di esprimere ciò che si prova ogni qualvolta ci si aspetta che le cose quasi certamente vadano peggio. In “The Nice Guys,” la passione cinica che che era solo una battuta alimentata di caos ne i film di "Arma Letale" qui viene spinta in qualcosa un leggermente più risonante - una commedia di agressione rassegnata, dove chiunque sta trollando tutti gli altri

C. MPAA Rating: R. durata: 116 MIN.
Produzione
A Warner Bros. release of a Silver Pictures, Waypoint Entertainment, RatPac-Dune Entertainment production. Prodotto da Joel Silver. Produttori esecutivi, Anthony Bagarozzi, Ken Kao, Michael J. Malone, Hal Sadoff. Co-produttori, Aaron Auch, Ethan Erwin.
Crew
Diretto da Shane Black. Sceneggiatura Black, Anthony Bagarozzi. Fotografia (colore), Philippe Rousselot; montatore, Joel Negron; music, David Buckley, John Ottman; production designer, Richard Bridgland; art director, David Utley; costume designer, Kym Barrett; sound, Peter J. Devlin; sound designer, James Harrison; supervising sound editor, Oliver Tarney; re-recording mixers, Chris Burdon, Paul Massey, Mark Taylor; special effects foreman, John J. Downey; assistant director, Andrew Ward; casting, Sarah Finn.
Con
Russell Crowe, Ryan Gosling, Matt Bomer, Kim Basinger, Keith David, Ty Simpkins.

TRADUZIONE a CURA di DAVIDE SCHIANO DI COSCIA
ARTICOLO ORIGINALE:variety.com/

domenica 15 maggio 2016

Recensioni dal festival di Cannes: ‘The BFG’ di Steven Spielberg


 di Peter Debruge

Un Mark Rylance tutto digitale trionfa sul pubblico con il suo grande, grande cuore in una storia di amicizia proibita che serve come un 'ET - L'extraterrestre' di Steven Spielberg per una generazione tutta nuova.

Diciamo per ipotesi che i giganti esistano davvero. Che loro si aggirino goffamente per Londra, intorno all'ora delle streghe (mezzanotte), raccogliendo bambini dalle finestre degli orfanotrofi come spuntini notturni. Che uno tra di loro ha delle riserve riguardo tutto questo "cannibullismo" e potrebbe in realtà essere un buon amico, se gliene venisse data la possibilità. Non vi piacerebbe saperne a riguardo? Questa è la bellezza di “The BFG” di Roald Dahl, come portato in vita dal recente premio Oscar Mark Rylance: ci crederete. Non importa quanto fantastica la storia (e diventa piuttosto strano in alcuni punti), questa splendido adattamento diretto da Steven Spielberg rende possibile per i pubblici di ogni età di abituarsi a una delle più improbabili amicizie nella storia del cinema, risultante in una sorta di classico per famiglie istantaneo "essere umani" che una volta ci si affidava alla Disney per avere.

Il romanzo di Dahl ampiamente letto e quasi universalmente riverito inizia il suo viaggio per diventare un film di Spielberg circa 25 anni fa, pressappoco allo stesso tempo in cui il regista fece uscire uno dei suoi pochi fiaschi, la cacofonia che era una sgargiante rielaborazione di Peter Pan del 1991, "Hook - Capitano Uncino." Quel film propinò più idee cattive che buone, ma tra le sue lezioni a portar via c'era la nozione che la magia funziona solo fintanto che un bambino ci crede, e qui vediamo il principio messo in pratica. Tuttavia aspettare più di un paio di decenni significava abbandonare l'idea di scritturare Robin Williams come l'eponimo "Big Friendly Giant" (ndt. i grande gigante amichevole) (una scelta che avrebbe alterato interamente la chimica del film), è stato meglio che Spilberg abbia aspettato, che la tecnologia abbia raggiunto le ambizioni del progetto, consentendo a Rylance di diventare credibilmente un "runt" di 7 metri e mezzo - il più piccolo (sinora) in una razza di giganti in motion Capture.

“The BFG” sarà un film enorme. Questo è sottinteso: Con Spielberg al timone, “E.T. la sceneggiatrice di "E.t. L'extraterreste" Melissa Mathison alla macchina da scrivere (benché sia morta lo scorso novembre) e la meravigliosa immaginazione di Dahl - e vocabolario - all'avanguardia, il film ha un enorme potenziale al botteghino. Tuttavia, senza alcuna star cinematografica in piena regola o personaggi di una serie per far si che i pubblici di tutto il mondo vogliano vederlo, "The BFG" non avrà vita facile per avvicinarsi vicino ai 20 film con il più grande incasso di tutti i tempi (una lista in cui Spielberg attualmente detiene l'ultimo posto, con "Jurassic Park").

Fortunatamente, “The BFG”ha molte più cose in comune con "E.T." piuttosto che con "Hook," rappresentando ancora un altra opportunità per un giovane frainteso - in questo caso, Sophie di 10 anni senza genitori (l'esordiente Ruby Barnhill), che è sbalzata fuori dalla finestra del suo orfanotrofio ed è in fuga verso Giant Country - per connetersi con una creatura i suoi simili esseri umani semplicemente non capirebbero.  Per una certa generazione, “E.T.” rappresenterà per sempre il film per bambini definitivo, e mentre certamente appartiene al pantheon, c'è sempre stato qualcosa di profondamente inquietante nel modo in cui la storia devia dall'essere un'opportunità di legame intergalattico a una favola da panico su come gli umani inevitabilmente rovinino qualsiasi cosa (un difetto che sostituire walkie-talkie alle pistole semplicemente non poteva riparare.)

Qui, sono gli altri nove giganti - un orrendo, irritabile gruppo, facilmente il doppio della taglia del BFG, con nomi come Fleshlumpeater, Bonecruncher e Meatdripper (ndt. Mangiaammassidicarne, Spezzaossa e Grondacarne), e con denti delle dimensioni di una lapide - che rappresentanto una minaccia, si oppongono all'idea di fraternizzare con il loro cibo. (Se il BFG abbia adottato Sophie come suo cucciolo o viceversa è argomento aperto alla discussione, cio nonostante a ogni modo, è un'idea affascinante per i bambini.) Il BFG avrà anche adottato una dieta più illuminata, sostituendo interamente con un vegetale puzzolente chiamato Snozzcumbers che fa suonare i fagioli di Lima assolutamente deliziosi, ma il resto preferisce ancora una bella leccornia umana. E tanto quanto sono sensibili ai suoni le grandi orecchie del BFG, così è il nasone gigante del capo gigante Fleshlumpeater (Jemaine Clement) all'odore di un potenziale bocconcino umano.

Ma Sophie non si fa intimidire facilmente, e fortunatamente, il suo coraggio è coraggioso in quello che avrebbe potuto in altro modo essere un film fin troppo spaventoso per chiunque dell'età di Sophie o più piccolo. Il BFG non ha pianificato esattamente cosa fare con Sophie dopo averla sottratta dall'orfanotrofio, sebbene anticipando il tipo di reazione che toccò a E.T. (dove umani spaventati avebbero potuto catturarlo e metterlo in uno zoo), è chiaro che non può lasciarla andare a spifferare riguardo all'esistenza dei giganti su "la teletele scatola delle fandonie e la radio squittente." Spielberg trattiene una vera e propria introduzione fino a che la coppia arriva a Giant Country, ma ci fa affezzionare al personaggio immediatamente rivelando la vistosa capacità della creatura di nascondersi in piena vista, in quanto il BFG usa le sue migliori mosse ninja notturne per evitare di essere notato a Londra.

Mentre gli altri giganti sono stati progettati ampiamente da zero (e in quanto tali, sembrano in qualche modo più convincenti allo sguardo), con il BFg, c'è un innegabile rassomiglianza a Rylence. Se qualcosa, i suoi tratti sono stati limitatamente distorti per adattarsi alle sue nuove dimensioni: alto quanto una porta da calcio è ampia, con mani delle dimensioni di pedane del supermercato, enormi orecchie da elefante e un naso che non sfigurerebbe sul monte Rushmore. Per quanto piacevolmente delicate i tratti di Rylance possano essere, questa riconfigurazione da specchio deformante richiede alcuni aggiustamenti da parte nostra, lanciando alcune delle gag a causa della prospettiva nelle scne iniziali imparando-a-conoscere nella sua caverna - che sembra non del tutto diversa da alcuni set de lo Hobbit immaginati dal suo collaboratore su "Le Avventure di Tintin" Peter Jackson. 

Jackson inoltre introdusse Spielberg alla tecnologia che rese possibile "The BFG", ed è grazie a Joe Letteri e al team motion capture della WETA che Rylance - un caratterista il cui impatto spesso si basa sulla sua capacità di far sembrare facile ogni dato ruolo - ha successo nell'infondere nel suo avatr digitale di delicatezza e sfumature (l'esatto opposto di ciò che Williams probabilmente avrebbe apportato al ruolo). Senza voler fare alcuna offesa al pioniere del motion capture Andy Serkis, è eccitante vedere qualcun altro fare una di queste performance virtuali, anche senza Williams nel ruolo, chi può dire quante risate si sono perse lungo la strada.

Quello che di umoristico "The BFG" offre deriva quasi direttamente dal romanzo di Dahl, gran parte di esso dovuto al modo "sinuoso" di parlare del gigante in un dialetto conosciuto come "gobblefunk." Nel contempo, la sceneggiatura di Mathison eccelle maggiormente nell'approfondire il legame tra Sophie e il BFG piuttosto che a fare battute lungo il cammino. Se qualcosa, sembra abbassare i toni di alcune delle più scandalose gag di Dahl, inclusa una scena in cui Buckingham Palace erutta in un tripudio di "whizzpoppers" (ndt ripieni sibilanti...) (uno può solo immaginare come Eddie Murphy o Mike Myers avrebbero potuto portare questa flatulenta scena in un altra direzione). Ma lei inoltre ha inventato la miglior scena singola del film, sviluppando il fatto che il BFG cerca di compensare per la buffoneria di voler divorare gli umani degli altri giganti soffiando sogni piacevoli attraverso le finestre di bambini addormentati.

Su insistenza di Sophie, il BFG porta la ragazza con se in una spedizione di raccolta sogni, saltando attraverso una pozzanghera magica verso Dream Country, un mondo alla rovescia dove "phizzwizards" - letteralmente, la sostanza di cui i sogni sono fatti - circonda i rami di un albero gigante come il mesmerizzante screensaver Apple "Flurry". Insieme, la ragazza e il gigante inseguono queste sfocature fosforescenti come tante sfuggenti farfalle. Parlando esteticamente, è una sequenza assolutamente ipnotica, danto al collaboratore di lungo corso di Spielberg John Williams il momento più ricco da intensificare con una colonna sonora completamente orchestrale che riesce a incantare senza fare affidamento pesantemente come al solito su di un semplice ricorrente tema musicale.

Quelli che conoscono il libro di Dahl capiranno quanto vitali i sogni siano per risolvere la storia della distensione giganti-umani, e questa ipnotica "sequenza di sogno" - insieme a una coppia di altre scene ambientate nell'officina di miscelazione dei sogni del BFG - fanno sembrare la fantasiosa soluzione di Sophie quasi plausibile quanto l'idea che lei diventi amica dell'unico gigante benevolo del pianeta. Il finale, che porta il BFG faccia a faccia con la Regina d'Inghilterra, trova Spilberg fuori dalla sua zona comfort e dentro il reame della farsa, e nonostante gli adulti troveranno questa sezione regalmente sciocca, è un vasto miglioramento rispetto a scene simili in "Minions" e "Garfield 2."

Queste sono difficilmente i paragoni a cui potrebbe stare mirando Spielberg con quello che è chiaramente progettato per essere un classico a carriera inoltrata, sebbene arruolare l'assistenza della Regina è per quanto uno possa allontanarsi dal problematico ultimo atto di "E.T."  - il che non è per dire che guardare Sua Maesta strapare "whizzpoppers" sia necessariamente una soluzione migliore. A questo punto nella loro collaborazione, Spielberg e il direttore della fotografia. Janusz Kaminski sono arrivati a illuminare e definire le loro inquadrature in un tale modo da sembrare assolutamente prestigioso, come se le cose non potessero essere state fatte in modo migliore. Qui, quella qualità consente a Barnhill (che assomiglia a una versione meno preziosa della star di "Matilda" Mara Wilson) e al Rylance virtuale di coesistere in maniera convincente, specialmente nelle meravigliose steppe verde smeraldo di Giant Country, dove Spielberg ci invita a credere ai nostri occhi. 

6. Durata: 115 MIN.
Produzione
A Walt Disney Studios release of a Disney, Amblin Entertainment, Reliance Entertainment presentation, in association with Walden Media, of a Kennedy/Marshall Co. production. Prodotto da Steven Spielberg, Frank Marshall, Sam Mercer. Produttori esecutivi, Kathleen Kennedy, John Madden, Kristie Macosco Krieger, Michael Siegel. Co-produttore, Adam Somner.
Crew
Diretto da Steven Spielberg. Sceneggiatura, Melissa Mathison, based on the book by Road Dahl. Camera (color), Janusz Kaminski; editor, Michael Kahn; music, John Williams; production designer, Rick Carter, Robert Stromberg; costume designer, Joanna Johnston.
Con
Mark Rylance, Ruby Barnhill, Penelope Wilton, Jermaine Clement, Rebecca Hall, Rafe Spall, Bill Hader.

TRADUZIONE a CURA di DAVIDE SCHIANO DI COSCIA
ARTICOLO ORIGINALE: variety.com